Mio articolo pubblicato su Cibus Link 5-2025
Nella grande distribuzione si tende spesso a pensare che i programmi di loyalty siano rimasti sostanzialmente invariati nel tempo.
In superficie, infatti, continuano a esistere cataloghi premi, raccolte punti convertibili in sconti e promozioni che ricalcano modelli consolidati. La percezione comune è quella di un meccanismo statico, quasi immutato. La realtà è molto diversa: tutto ciò che conta avviene dietro le quinte, e proprio lì si stanno giocando le partite più importanti del prossimo futuro.
Mai come oggi la GDO dispone di una quantità di dati enorme, stratificata e continua, che permette di comprendere in profondità le abitudini di acquisto dei clienti. La vera innovazione non sta nel cambiare un catalogo premi, ma nel saper utilizzare questi dati per personalizzare il rapporto con il cliente e trasformare la loyalty da strumento generico a leva strategica per generare valore. È un potenziale enorme, ancora largamente inespresso, non per mancanza di dati ma per una carenza culturale all’interno delle organizzazioni. La sfida non è tecnologica: riguarda la mentalità, i processi, le priorità. Senza un cambio di passo culturale, la personalizzazione resta un esercizio teorico.
La GDO continua a inseguire il nuovo cliente, spesso trascurando chi ha già scelto di entrare nel punto vendita. È un errore strutturale, condiviso anche da una parte dell’industria, che porta a investire energie e risorse per conquistare chi ancora non c’è, anziché coltivare chi ha già manifestato fiducia.
È qui che il settore ha un margine di miglioramento straordinario.
L’avvento del retail media sta contribuendo a spostare l’attenzione nella direzione corretta: per la prima volta costringe a ragionare sui clienti reali, sui dati, sulle loro traiettorie d’acquisto, aprendo la strada a una relazione più consapevole e meno standardizzata.
Tutto questo richiede però manager in grado di portare una nuova cultura della personalizzazione dentro le aziende e un cliente finalmente pronto a sentirsi riconosciuto come individuo, non come numero. Il paradosso della loyalty degli ultimi anni è proprio la distanza tra la retorica della personalizzazione e la pratica delle offerte indifferenziate: è inutile parlare di relazione avanzata se un sistema continua a proporre un kit per neonati a una famiglia che ha solo un cane o promozioni su categorie che non rientrano minimamente nei comportamenti d’acquisto reali. In un mercato sempre meno fidelizzato – perché le persone distribuiscono i propri acquisti su più insegne – questi errori possono spostare traffico e vendite.
Il tema della fedeltà è tra i più fraintesi del settore. La definizione storica, risalente a circa un secolo fa, sostiene che un cliente è fedele quando torna più spesso da te. La pandemia ha modificato radicalmente questo paradigma: l’aumento della frequenza d’acquisto ha moltiplicato le occasioni di scelta, intensificando la competizione tra retailer. Tutti si contendono, di fatto, gli stessi clienti, perché – come mi ricordava un direttore generale con cui ho lavorato durante un’esperienza precedente – le persone mangiano ogni giorno, per 365 giorni all’anno, indipendentemente dal numero di insegne che hanno intorno. La torta è sempre la stessa: è la pressione competitiva ad aumentare.
In questo scenario le loyalty possono diventare una leva realmente differenziante, ma solo se si ha il coraggio di cambiare la logica che le sostiene. Non basta intervenire sulla superficie: serve riscrivere l’impianto culturale, organizzativo e decisionale che guida il rapporto con il cliente.
La personalizzazione non è un progetto tecnologico: è un progetto di visione.
Ed è questo il passaggio che determinerà quali retailer sapranno costruire valore e quali resteranno ancorati a modelli che non parlano più al consumatore di oggi.
